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La Marvel compie 85 Anni

Il 31 agosto 1939 segna una data storica nel mondo del fumetto con la pubblicazione del primo numero di Marvel Comics, originariamente sotto l’etichetta Timely Comics. Da quel momento, il marchio ha percorso un cammino straordinario, trasformandosi nel 1961 in Marvel Comics e successivamente diventando Marvel Entertainment. Questo cambiamento segna l’inizio di un’epoca che ha rivoluzionato il panorama dell’intrattenimento, specie grazie ai film, consolidando il brand come un pilastro della cultura popolare globale.

Per celebrare questo significativo traguardo di 85 anni, Marvel Entertainment ha condiviso un video commemorativo sui suoi canali social. Il filmato, ricco di emozione e nostalgia, offre uno sguardo al passato e al futuro dell’universo Marvel, mettendo in luce non solo i successi cinematografici e le serie TV, ma anche il contributo fondamentale di Stan Lee, il cui genio creativo ha dato vita a innumerevoli eroi e storie che hanno affascinato lettori e spettatori di tutte le generazioni.

Il video include una serie di sequenze inedite dei film e delle serie TV che i fan attendono con grande ansia. Tra le produzioni future mostrate ci sono Thunderbolts, Captain America: Brave New World, Devil: Rinascita e Ironheart. Ogni clip offre uno scorcio emozionante di ciò che ci aspetta nei prossimi anni, con particolare attenzione alla trasformazione di Hulk Rosso, interpretato da Harrison Ford. Questo personaggio, che farà il suo debutto in Thunderbolts e tornerà anche in Captain America: Brave New World, è destinato a giocare un ruolo chiave nelle trame future dei film a seguire.

La reazione del pubblico al video è stata entusiasta: in meno di 24 ore, il filmato ha ottenuto oltre 700.000 like, dimostrando quanto i fan siano affezionati e ansiosi di scoprire le nuove avventure dell’universo Marvel. Questo entusiasmo riflette l’enorme impatto culturale che Marvel ha avuto e continua ad avere nel mondo del cinema e dei fumetti.

Nel corso degli anni, Marvel ha saputo ritagliarsi un posto di primo piano nel panorama cinematografico globale. Dal lancio di Iron Man nel 2008, che ha segnato l’inizio dell’era dell’Universo Cinematografico Marvel (MCU), fino ai recenti successi come Deadpool & Wolverine, il brand ha accumulato una serie di trionfi sia al botteghino che nella critica. Avengers: Endgame, ad esempio, è uno dei film con il maggiore incasso di tutti i tempi, superando i 2,7 miliardi di dollari a livello internazionale e dimostrando la forza e l’appeal duraturo del marchio.

Il successo però, non si limita solo ai film; le serie TV hanno anch’esse contribuito a espandere e approfondire l’universo narrativo, offrendo ai fan nuove storie e personaggi da esplorare. La capacità di Marvel di reinventarsi e di mantenere il proprio fascino nel corso degli anni è una testimonianza della sua resilienza e della sua abilità nel catturare l’immaginazione del pubblico. Con nuove produzioni all’orizzonte e un’eredità così ricca, il futuro di Marvel sembra essere tanto luminoso quanto il suo passato è stato influente, nel mondo del fumetto e non.

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Comencini “Mi serviva tempo per fare un film su me e mio padre”

“E’ un film che avevo dentro di me da sempre. E’ un film difficile da fare, mi serviva del tempo per sentirmi abbastanza matura come regista per sentirmi all’altezza di farlo. E anche dal punto di vista personale, avevo bisogno di tempo per elaborare in maniera libera e serena tante cose del mio vissuto. Ci vuole del tempo anche per poter dire grazie. Durante il lockdown c’era una sensazione di angoscia diffusa, e anche l’idea che il cinema potesse un pò perdersi: in quei giorni ho sentito forte la necessità di mettere per iscritto questi ricordi che erano da sempre nella mia memoria. Dopo aver scritto la sceneggiatura, ho chiesto un parere, un consiglio a un mio maestro, Marco Bellocchio: gli ho chiesto di leggerla, lui l’ha letta e mi ha incoraggiata a fare il film al punto di volerlo produrre”. Così la regista Francesca Comencini oggi in conferenza stampa alla Mostra del cinema di Venezia per il suo film “Il tempo che ci vuole”, con Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano, presentato Fuori Concorso. Un’opera autobiografica incentrata sul rapporto tra la Francesca bambina, adolescente e giovane adulta, e suo padre Luigi, uno dei registi più importanti del cinema italiano.
“Il legame padre-figlia è assolutamente fondante nella vita di qualsiasi bambina e donna. E di fatto mi sono resa conto che nel cinema è stato trattato poco. Il tentativo del film è anche di raccontare questo legame così importante”, ha proseguito Comencini che poi ha sottolineato che “è ispirato dall’idea della fiaba. Nel momento in cui girava Pinocchio, mio padre era veramente felice e sprigionava la felicità di un sogno che aveva cullato per anni. Lui cercava dei codici di un racconto fiabesco italiano, con la società contadina, con la miseria, con la fantasia che si sprigiona dalla realtà. Era un uomo molto concreto, che conosceva tutti i mestieri del cinema e che aveva una fortissima connessione con il sè stesso bambino. Credeva nel fiabesco in maniera seria, per lui era una componente seria della vita”.
Nel film, Fabrizio Gifuni incarna il padre Luigi Comencini: “Ho fatto un lavoro di ricerca per interpretarlo. Mi sembrava insensato andare in una direzione fortemente evocativa, ma sarebbe stato insensato anche non tenere conto del corpo e della voce di Luigi. Evocare fantasmi è un gioco impossibile, da apprendisti stregoni. Comencini era un regista molto schivo, c’è poco materiale su di lui. Per avere maggiore idea su di lui bisogna riguardare l’inchiesta I bambini e noi: un lavoro insuperato e lì c’è Luigi perchè è in campo. Aveva una speciale qualità nell’ascolto, intervistava bambini di ogni classe sociale senza nessuna idea di partenza. Lui aveva un ascolto e un’empatia nei confronti dei bambini perchè si metteva al loro livello. Mi è stato molto utile. Poi ho interiorizzato il personaggio, non bisogna avere fretta, aspettare per arrivare fino a dove si può arrivare. Per me è stata poi la possibilità di vedere e rivedere film straordinari di un regista tra i più grandi che abbiamo mai avuto”. Il ruolo della stessa Francesca è affidato a Romana Maggiora Vergano, attrice che si è rivelata al grande pubblico con C’è ancora domani di Paola Cortellesi: “Mi sono sentita privilegiata e orgogliosa che Francesca mi avesse scelto. Questa storia ha un respiro universale, non è solo la storia di Francesca e suo padre. Sul copione non c’è scritto Francesca e Luigi, ma padre e figlia”.

foto: xp2/Italpress

(ITALPRESS).

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Venezia, Amelio “Racconto la guerra ma non come in televisione”

“Ho un modo di lavorare che non è condiviso dagli altri registi. Io sento nelle viscere le cose, non le penso. Non parto da un tavolino dove metto delle idee perchè le ho sentito dire o perchè l’attualità le racconta o perchè gli argomenti “tirano”, ma è il contrario”. Lo ha detto il regista Gianni Amelio oggi alla conferenza stampa del suo ultimo film “Campo di battaglia”, presentato in Concorso alla Mostra del cinema di Venezia e ambientato durante la Prima Guerra mondiale. Un film di guerra, “ma senza le immagini di guerra perchè sono usurate, paradossalmente oggi sembrano irreali perchè ne vediamo troppe. La televisione ci manda tutti i giorni bombardamenti, feriti e morti. Non ci sono solo le guerre a Gaza o in Ucraina, le immagini di morte vengono consumate costantemente in situazioni che, per fortuna, non sono quelle della sala cinematografica. La sala è un tempio, il tempio della goduria del cinema. Quando si entra in una sala si sta attenti alle emozioni. A casa con la televisione si fa la vita di tutti i giorni e intanto arrivano immagini e suoni di guerra. Questo provoca un’assuefazione terribile al concetto di guerra perchè in quei momenti noi subiamo le emozioni e non le partecipiamo”.
(“Il mio film non va visto in tv ma in una sala. Questo non è un film di guerra ma sulla guerra: la forza emotiva del film non è predicatoria o pesante o fatta per un comizio, ma è fatta sulla pelle mia e su quella dei personaggi”, ha detto Amelio, che ha dedicato un pensiero anche agli interpreti comprimari: “Ho voluto per ogni piccola parte scavare nelle regioni italiane e ho scoperto attori meravigliosi, ognuno in un punto del Paese dove lui conosce la sua lingua: c’è il soldato pugliese, c’è quello valdostano”. Il ruolo del protagonista è affidato ad Alessandro Borghi, nei panni del medico Stefano Zorzi, pieno di umana compassione per i feriti che vogliono evitare di tornare al fronte: “Il mio personaggio è frutto di una scoperta continua. Gianni ci ha reso liberi rispetto alle modalità, alle sfumature e ai tempi. Una tematica del film è molto importante: la relatività del giusto e dello sbagliato. Il mio personaggio sarebbe il “buono” del film, ma lo spettatore alla fine si domanda chi ha ragione, chi sia davvero il buono e chi il cattivo: anche quello buono ha fatto davvero soltanto azioni giuste e buone? Il film si interroga su questo, io che il mio personaggio sia davvero il buono non lo so”.
Borghi ha anche dedicato un intervento al suo regista: “Non ho mai conosciuto nessuno come Amelio. E’ la benzina di ogni processo creativo. E’ stato un processo lungo e meraviglioso. Gianni ti responsabilizza e ti rende partecipe di ogni scelta. Il film è figlio di un’improvvisazione emotiva che viene guidata da lui”. Infine, anche Gabriel Montesi, nel ruolo del coprotagonista Giulio Farradi, ha ringraziato con sentita commozione il cineasta: “Amelio mi ha insegnato tanto. Mi ha fatto capire che cosa sia ogni inquadratura e che agire come attore significa anche saper leggere le persone”.

foto: xp2/Italpress

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Alla Mostra di Venezia “Babygirl”, Nicole Kidman e la sessualità sottomessa

L’argomento del giorno al Lido è il sesso, nella sua variante specifica della sottomissione… Il mondo ha ben altri problemi, si direbbe, ma alla 81 Mostra del Cinema oggi è di scena Nicole Kidman con “Babygirl” e tutte le attenzioni vanno a lei e al ruolo programmaticamente estremo che ha interpretato in questa opera terza dell’attrice e regista olandese Halijna Reijn, presentata in Concorso. Produzione americana, indipendente ma griffata, il film sta dalle parti delle spinte erotiche di “50 sfumature di grigio”, ma ciò che si rimpiange probabilmente è la mano di un altro olandese, quel Paul Verhoeven col quale Halijna Reijn ha lavorato (in “Black Book”), del quale in questo film subdolamente moralista manca l’autentica e profonda trasgressività. Ormai difficilmente riconoscibile, Nicole Kidman entra in scena con un orgasmo in primo piano, culmine di un amplesso col marito Antonio Banderas, che è un regista teatrale e un uomo ampiamente sensibile e corretto, che però, rivelerà lei, non le fa avere un vero amplesso da anni… Tant’è che, per dare la misura della trasgressione cui il film ci spinge, lei completa la seduta nell’altra stanza, guardando video porno online…
La donna si chiama Romy ed è la potente AD di un’impresa di automazione aziendale: registra video motivazionali e promozionali a spron battuto e guida il suo staff femminile con determinata cordialità, mentre a casa fa la mamma e la moglie perfetta. Senonchè tra gli stagisti appena arrivati in azienda ce n’è uno di nome Samuel (è il notevole inglese Harris Dickinson, visto in “Triangle of Sadness”) che turba la sua attenzione, forse per i suoi modi sobriamente introversi o per lo sguardo determinato e seducente con cui la fissa e la cerca. Sarà che il ragazzo ha intuito una cosa di Romy che lei stessa ancora non sa, ovvero che dietro l’immagine della donna di potere, che gestisce il comando con affabile puntualità e correttezza, c’è una donna che desidera essere sottomessa, comandata con determinata e controllata volgarità. Tra i due inizia così un gioco di attrazione e seduzione che vede Romy timorosa di concedersi ai suoi desideri rimossi e sospettosa nei confronti di quel ragazzo che potrebbe rovinarle la carriera e la vita. E’ lei la “Babygirl”, la “piccolina” del titolo, fragile e insicura di fronte a Samuel, che nonostante la sua giovane età e la sue origini più umili ha il controllo delle proprie emozioni, dei desideri e sa perfettamente ciò che vuole, forse proprio perchè non ha nulla da perdere.
Patinato e calibrato come sa essere ogni film indipendente americano di rango, “Babygirl” aggiunge poco alla filmografia sui rapporti di potere tra datori di lavoro e dipendenti, declinati nella sfera dell’attrazione sessuale. Halijna Reijn scrive e dirige un’opera che tenta di spingersi nella riflessione sul tema del controllo nella società contemporanea, mettendo in campo anche le questioni del potere finalmente affidato alle donne e sui rischi che la correttezza femminile corre nella sua gestione. Il film vuole essere una intrusione nella dimensione del desiderio femminile e della sua libertà di fronte alle pretese dell’uomo, ma cerca anche di offrire una visione liberatoria della sessualità, affidandosi alla neutralità morale delle nuove generazioni. Molto meno trasgressivo di quel che vorrebbe sembrare, “Babygirl” convince poco soprattutto per la banalità con cui sviluppa la metamorfosi della protagonista e per l’incapacità di dare sostanza al personaggio indubbiamente più interessante, Samuel, interpretato con determinazione e equilibrio da Harris Dickinson. Nicole Kidman, dal canto suo, ci mette un certo facile coraggio, ma non riesce a dare sostanza a un personaggio che resta distante dallo spettatore.

foto: IPA Agency

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