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Curiosità

SAI CHE… L’incendio di Notre-Dame poteva essere evitato?

Il 15 aprile 2019, un evento devastante ha scosso il mondo intero: un incendio è divampato nella storica cattedrale di Notre-Dame a Parigi, un simbolo dell’arte gotica e patrimonio dell’umanità. Questo episodio, che si è trasformato in una tragedia sotto gli occhi di milioni di persone, ha messo in luce gravi lacune nelle procedure di sicurezza.

Le fiamme hanno iniziato a propagarsi poco prima delle 18:20 nel sottotetto della cattedrale. Nonostante i rigorosi controlli e le misure preventive adottate per garantire la sicurezza del monumento, un errore umano ha avuto conseguenze fatali. Quando è suonato l’allarme, il personale di sicurezza ha immediatamente evacuato il luogo. Tuttavia, un guardiano ha commesso un errore cruciale: invece di dirigersi verso il sottotetto principale, si è recato nella sagrestia, dove non ha trovato alcun segno di incendio.

Quindici minuti dopo, quando l’errore è stato scoperto, la situazione era già critica. Il sistema d’allerta non era stato progettato per avvisare automaticamente i vigili del fuoco, i quali sono stati contattati solo alle 18:51. In quel lasso di tempo, il rogo ha già trovato nutrimento nei materiali antichi e secchi, avvolgendo il tetto e la guglia centrale della cattedrale.

Nonostante il tempestivo intervento di oltre 400 vigili del fuoco, il crollo della guglia è avvenuto alle 19:50, segnando una perdita incommensurabile per il patrimonio culturale mondiale. Grazie al coraggio dei pompieri e alla struttura in pietra della cattedrale, molti beni artistici e religiosi sono stati salvati, tra cui la Corona di Spine e le celebri rosacee del XIII secolo.

Questo tragico episodio mette in evidenza l’importanza di procedure di sicurezza efficaci e la necessità di una formazione adeguata per il personale preposto alla tutela di beni culturali. La storia di Notre-Dame non è solo una narrazione di perdita, ma un monito affinché simili incidenti non si ripetano in futuro.

Curiosità

SAI CHE… Cosa Accade in Caso di Rottura di un Cavo di un Ascensore?

Nel novembre 2018, un evento straordinario si è verificato a Chicago, quando sei persone sono rimaste bloccate in un ascensore al 95° piano dell’ex John Hancock Center. Durante la discesa, uno dei cavi che sosteneva la cabina si è spezzato, causando una caduta di 84 piani, fino a fermarsi all’11°. Sorprendentemente, tutti i passeggeri sono usciti illesi.

Questo incidente solleva una domanda cruciale: come è possibile che una situazione così drammatica si sia conclusa senza gravi conseguenze? La risposta risiede nei moderni sistemi di sicurezza degli ascensori. Ogni ascensore è progettato con cavi di acciaio multipli, e la loro struttura permette che, anche in caso di rottura di uno di essi, gli altri possano sostenere il peso della cabina.

Inoltre, in situazioni estreme in cui tutti i cavi dovessero cedere, i freni di sicurezza si attivano automaticamente grazie a un dispositivo chiamato “governatore di velocità”. Questo meccanismo ferma la cabina sui binari, prevenendo una caduta libera.

Ma le precauzioni non si fermano qui: sotto la cabina si trova aria compressa e ci sono ammortizzatori alla base del vano. Questi componenti sono progettati per ridurre l’impatto in caso di emergenza, incrementando ulteriormente le possibilità di sopravvivenza.

Nel caso dell’incidente di Chicago, i vigili del fuoco hanno dovuto intervenire per liberare i passeggeri intrappolati, dimostrando così che, nonostante la drammaticità dell’evento, le misure di sicurezza hanno funzionato. Gli ascensori sono tra i mezzi di trasporto più sicuri grazie a queste tecnologie, e gli incidenti come quello di Chicago sono estremamente rari e di solito non comportano ferite gravi.

La prossima volta che utilizzi un ascensore, ricorda che la tua sicurezza è garantita da un sistema altamente affidabile e collaudato.

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Curiosità

SAI CHE… Fu “sviluppato” un missile che viaggiava ad alcool?

Negli anni ’30, un team di ingegneri tedeschi, guidati dal celebre Wernher von Braun, stava portando avanti il progetto del V-2, un razzo innovativo destinato a diventare l’arma definitiva del regime nazista durante la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, questo ambizioso programma affrontò una sfida peculiare che mise in crisi il progresso del progetto: l’uso dell’alcol etilico come propellente.

L’alcol, miscelato con acqua, era cruciale per il funzionamento del V-2. Ma in un contesto di scarsità di risorse, il carburante divenne un oggetto di desiderio per il personale tecnico. I razzi, che avrebbero dovuto colpire gli avversari, venivano depauperati del loro carburante a causa del consumo illecito. La situazione divenne talmente critica che le autorità militari si resero conto che le perdite di carburante non erano solo dovute a fuoriuscite accidentali o evaporazioni, ma a un uso improprio da parte degli stessi ingegneri.

Per cercare di arginare il problema, inizialmente fu aggiunto un colorante tossico all’alcol, ma i tecnici trovarono un modo per rimuoverlo filtrandolo attraverso una patata, creando di fatto una sorta di schnapps. Per risolvere ulteriormente la questione, si tentò di aggiungere un purgante, ma questo portò a inconvenienti, come ritardi nei test a causa di frequenti interruzioni. Infine, l’adozione del metanolo come additivo portò a gravi conseguenze, tra cui la perdita della vista per un ingegnere e addirittura la morte di un altro.

Nonostante le difficoltà, il programma V-2 continuò. Le stime indicano che ogni razzo conteneva una quantità di alcol equivalente a oltre 66.000 martini secchi, un incentivo per il morale dei lavoratori in tempi difficili. Questo episodio singolare della storia dell’ingegneria bellica ci ricorda quanto possano essere imprevedibili le sfide nel raggiungimento di obiettivi ambiziosi e ci offre uno sguardo curioso su un aspetto meno noto della guerra. Oggi, mentre si parla di razzi riutilizzabili e tecnologie avanzate, la storia del V-2 rimane un esempio affascinante di come la creatività umana possa talvolta prendere direzioni inattese.

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Curiosità

SAI CHE…. Cosa si cela dietreo al Mito di Ragnarök?

Un recente studio archeologico ha portato alla luce un’affascinante e inquietante connessione tra un disastro climatico avvenuto nel VI secolo d.C. e il celebre mito norreno di Ragnarök. I ricercatori del National Museum, attraverso l’analisi di campioni di quercia danese, hanno evidenziato un significativo raffreddamento climatico che ha colpito il Nord Europa tra il 539 e il 541 d.C., causato da due massicce eruzioni vulcaniche nell’emisfero occidentale.

Questi eventi naturali hanno generato ceneri e biossido di zolfo, causando un’oscurità che ha avvolto il sole e ridotto le temperature, portando a quello che gli studiosi hanno definito un “inverno vulcanico”. Le conseguenze furono devastanti: la popolazione locale e l’agricoltura subirono profondi cambiamenti, con segni evidenti di abbandono delle terre coltivate e un aumento della riforestazione.

In questo contesto di crisi, gli archeologi hanno osservato un incremento di tesori e oggetti preziosi sepolti in Danimarca, suggerendo che questi potessero rappresentare offerte rituali destinate a placare gli dei e ripristinare il ciclo naturale. Tale comportamento richiama l’idea del “Fimbulwinter”, un lungo inverno che precede la catastrofe finale di Ragnarök.

Questa scoperta invita a riflettere sul mito di Ragnarök come potenziale riflesso di un trauma collettivo. Piuttosto che una semplice leggenda, il mito potrebbe avere radici in eventi storici reali che hanno plasmato la cultura e la visione del mondo delle popolazioni nordiche. La narrazione di una battaglia finale e di un inverno senza fine ci ricorda come l’umanità abbia sempre cercato di interpretare e dare senso ai catastrofici cambiamenti ambientali, rimanendo affascinata dalla lotta tra ordine e caos.

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